


Il libro è attualmente esaurito, ma nuova edizione aggiornata è stata pubblicata nel 2013 presso l'editore Besa (vedi).
Il termine “ninna nanna” è una formula reduplicativa in quanto sia “ninna” sia “nanna” nel linguaggio infantile significano “sonno”. Il vocabolo è utilizzato nella maggioranza dei dialetti nazionali, ma bisogna citare almeno la vistosa eccezione del siciliano, che usa invece “a la vò”, “a vò” e simili, la cui etimologia richiamerebbe l’atto del vogare, gesto sostanzialmente simile a quello del cullare.
Esso è utilizzato anche in alcune lingue romanze, come lo spagnolo nana, il portoghese nana-nana. Altre lingue presentano vistose affinità, in francese ad esempio si usa berceuse, in inglese lullaby e in tedesco Wiegenlied.
Il termine ha certamente valore fonosimbolico, ma è anche inevitabile l’accostamento al latino nenia, che vale “cantilena”, “canto funebre”, o anche “linguaggio magico”, mentre per definire il canto di culla invece i latini usavano più probabilmente lallum (o lallus). È da verificare anche una possibile derivazione dall’arabo, che nella variante tunisina ha nänni e in quella egiziana ninne, che in entrambi i casi valgono “dormire”.
La funzione primaria della ninna nanna è ovviamente quella di indurre al sonno il bambino grazie ad una reiterazione ritmica e melodica che tende ad introdurre un effetto ipnotico, secondo un procedimento che richiama l’antico rito dell’incantamentum.
A questa prospettiva contribuiscono sia l’aspetto melodico sia quello verbale fortemente ripetitivi e sostanzialmente monotoni.
Una seconda funzione, certo non meno importante, è quella di acculturazione linguistica e musicale del bambino: questi, infatti, stabilisce il suo primo contatto con la musica e con la realtà che lo circonda proprio attraverso la voce della madre e delle donne di casa. A conferma di questo intendimento educativo si può citare il fatto che i messaggi inviati al bambino sono spesso differenziati a seconda del suo sesso.
Ecco come Roberto Goitre ed Ester Seritti hanno efficacemente descritto questo procedimento di acculturazione:
A poco a poco, con il trascorrere dei mesi, dalla fase dell’ascolto il bambino passa a quella dell’imitazione sempre più precisa dei suddetti fonemi, pur non annettendo ad essi ancora un valore di codice, ma pensando soprattutto ad arricchire il proprio campionario fonemico fino a pervenire in breve tempo alla terza fase, quella della creatività elementare, ossia a quel momento in cui egli usa il suo repertorio di fonemi secondo una libera e precisa volontà di espressione che forma a poco a poco il discorso, dapprima non strutturato, in seguito elementare, per diventare sempre più caratterizzato e delineato in frasi e in periodi a fini strettamente esistenziali.
[...] Se l’apprendimento del linguaggio verbale trae la sua origine dall’ascolto delle prime lallazioni verbali, l’apprendimento di quello musicale trova il suo riscontro nelle prime lallazioni cantate che fanno parte del patrimonio musicale, sociale, ambientale, linguistico e dialettale, storico ed etnico del popolo.
Quali potrebbero essere per noi italiani queste lallazioni musicali? Senza dubbio alcune ninne nanne di struttura elementare.
Un’altra funzione meno nota della ninna nanna è tesa a fornire una valvola di sfogo attraverso il quale la madre (o comunque la persona che si assume il compito di addormentare il bambino) lamenta la propria condizione esistenziale, ma questa funzione non è sempre esplicita ed il suo riconoscimento è una acquisizione relativamente recente e tuttora alquanto misconosciuta.
Presso i popoli civili [la ninna nanna] prende talvolta vita e sostanza di poesia.
Le immagini tenere e affettuose tendono a suscitare visioni di paesi beati, di lontane fiorenti speranze, di giardini pieni d’incanto, di tesori, di felicità, di fate e di angeli recanti il dolcissimo sonno, che spesso è il bambino Gesù, più spesso, poi, un re o un imperatore a cavallo d’un bianco destriero, con briglie e sella d’oro e d’argento.
A lui hanno fatto eco nel descrivere paesaggi idilliaci di questo tipo una lunga schiera di studiosi che si sono occupati dell’argomento.
Tralasciamo per carità di patria di riportare le parole di Saverio La Sorsa, autore di una antologia di ninne nanne, tra l’altro assai scorretta e inaffidabile, ma soprattutto corredata di alcune pagine di introduzione ricolme di sconcertante retorica e di men che approssimative affermazioni, e veniamo a dare brevemente conto delle parole di alcuni studiosi più recenti, ad esempio Raffaello Cioni:
Anche se non avessero pregi, è pieno di tentazioni lo studio di queste umili forme della letteratura popolare, perché rievocano alla nostra mente e al nostro cuore i quadri più belli dell’intimità domestica. Rammentate il Giusti?
Rileggiamo, per conforto del cuore grato, le ninne nanne che hanno cullato i nostri sonni infantili; forse un baleno di fugace commozione luccicherà nelle nostre pupille, e un sorriso nostalgico per le cose lontane e care fiorirà nei nostri labbri riarsi dalle aridità della vita e dell’esperienza.
Basterebbe ciò per dire che queste cantilene hanno un pregio grandissimo: quello di commuoverci.
Per lungo tempo dunque i ricercatori e gli studiosi di cultura popolare, nel momento in cui si sono imbattuti nelle ninne nanne, non hanno saputo trattenersi dal cadere in questo stereotipo, che vedremo presto quanto sia vero.
Par quasi di vederli posare la penna nel calamaio, alzare gli occhi al cielo e cercare l’ispirazione per descrivere quello che forse era soltanto il loro desiderio di tornare nel tepore della culla o addirittura in liquide dolcezze prenatali. Abbondavano dunque boccioli di rosa e tenerezze, amor di mamma e rosei angioletti, e non si accorgevano del fuoco che covava sotto la cenere.
Infatti già a partire dal 1927 il grande poeta spagnolo Federico Garcia Lorca aveva iniziato a tenere conferenze in giro per l’Europa cui il buon Raffaele Corso avrebbe fatto bene, se fosse stato in grado di superare gli steccati di una sterile autarchia culturale, ad assistere. In questi incontri Lorca aveva infatti riferito queste acute osservazioni:
Qualche anno fa, girellando nei dintorni di Granada, udii cantare una popolana che addormentava il suo bambino. Avevo sempre notato la pungente tristezza delle nostre canzoni di culla; mai come allora, però, avevo colto questa verità in tutta la sua concretezza.
Da quella volta mi sono dato a raccogliere ninne-nanne in ogni luogo di Spagna: volevo conoscere in qual modo le donne del mio paese addormentassero i figli e, dopo qualche tempo, ne trassi il parere che la Spagna adopera le sue melodie più tristi (ed i suoi testi di più fonda malinconia) per accarezzare il primo sonno dei suoi bimbi. [...]
Come mai [la Spagna], per secondare il sonno di un bambino, ha custodito ciò che è più sanguinante e meno adatto ad una sensibilità così delicata? Bisogna non dimenticare che la ninna-nanna viene inventata (ed i testi lo confermano) da quelle povere donne i cui bimbi costituiscono un peso, una croce onerosa che a volte faticano a reggere.
Ogni figlio, anziché una festa, risulta un gravame e quindi le mamme non possono fare a meno di cantare, dentro l’amore, anche il disinganno della vita. Troviamo esempi perfetti di tale posizione, di questo rancore nei confronti del bambino che, benché amato dalla madre, è arrivato proprio quando non doveva.
Naturalmente anche in Italia le cose non andavano molto diversamente. In uno scritto del 1956 l’etnomusicologo statunitense Alan Lomax (allora in Italia per sottrarsi alle persecuzioni maccartiste) aveva infatti osservato:
Le ninne nanne dell’Italia meridionale sono dolorose, veri e propri gemiti di sconforto, indistinguibili dai lamenti funebri dell’intera regione. [...] Ciò che [il bambino] ode è una voce acuta, una melodia gemebonda, espressione della tragedia del vivere nell’Italia Meridionale, della sua povertà, delle sue tradizioni sessuali, fonte di insoddisfazione e di amarezza.
A questo proposito si può osservare come la matrice musicale di molte ninne nanne meridionali sia spesso indistinguibile da quella del lamento funebre, in ciò confermando l’ambiguità semantica del termine latino nenia che, come abbiamo visto, comprende anche questa accezione. L’etnologo Ernesto de Martino ribadisce questo concetto facendo notare come l’oscillazione ritmica del busto che accompagna la melopea del lamento funebre sia sostanzialmente analoga al movimento di un corpo che culla.
Come non vedere nella trepida veglia della mamma chinata sul suo bambino un intimo alternarsi di speranza e di timore, con la donna ineluttabilmente costretta a scorgere, nell’intatta bellezza della sua creatura, il preannuncio della futura angoscia dell’esistere e perfino la tragedia della morte?
Altrettanto spesso nelle ninne nanne sono presenti immagini cruente e atte a suscitare paura. Riteniamo che questo debba iscriversi in un procedimento assai frequente nel rapporto tra bambino e adulto, in cui quest’ultimo provoca situazioni di fittizio pericolo per poi rassicurare il piccolo, che da tutto ciò trae occasione di liberatorio divertimento e di confidenza nell’adulto. Si ricordi per esempio il diffusissimo gioco nel corso del quale si finge di far cadere il bimbo per poi trattenerlo all’ultimo momento, oppure alla quantità di figure terrorizzanti e situazioni di pericolo che sono presenti nelle fiabe, in cui comunque il buon fine della storia funge da elemento catartico per tranquillizzare e far addormentare il bambino.
Torniamo ora alle affermazioni di Alan Lomax, il quale aveva probabilmente accentuato certe differenze tra il nord e il sud dell’Italia, poiché un po’ dappertutto nella nostra penisola si trovano esempi di canti di culla particolarmente dolenti e specchio di una condizione femminile di estrema durezza. Tuttavia, a parte ciò, egli ha avuto il merito di porre in evidenza una caratteristica che le ricerche successive hanno poi confermato, anche se purtroppo l’eco delle sue parole, come abbiamo visto, è rimasto circoscritto ad un troppo ristretto ambito di studiosi.
Vi è stato anche chi, non potendo non prendere atto dell’inquietante presenza di questo aspetto dei canti di culla, ha messo in opera un affannoso tentativo di elusione del problema, affermando che in questi casi la madre abbia “voluto scherzare”, è il caso di Carmelina Naselli. La studiosa siciliana ha ritenuto che
di fronte al gran numero, anzi all’assoluta maggioranza di cantilene materne tenere, aggraziate, eloquenti d’amore, è il caso di pensare che il linguaggio di quella madre modicana esasperata, costituisca proprio un’eccezione [...]. Ma è questo poi un canto da credersi nato così o non è invece l’improvvisata parodia di qualche altro canto materno? E nell’altra ninna nanna di Noto che contiene essa pure un augurio di morte, quell’augurio deve prendersi come un’imprecazione vera e propria? [...]
La madre ha voluto scherzare. Scherza quando minaccia il bambino:
E si iddu un voli durmiri,
’ntra lu culiddu l’havi ad aviri,
e scherza anche ora, in un modo curioso si dirà, ma il linguaggio dell’affetto conosce ben strane vie e molte altre madri, tutte le madri forse in qualche momento, scherzano così. Ecco, ad esempio, la ninna nanna di una madre toscana:
Fai la nanna, che tu crepi!
Che ti portin via i preti!
Che ti portino al camposanto!
Fai la nanna angelo santo.
Il vocativo “angelo santo” dice tutto, e toglie anche qui ogni equivoco sul valore di quelle apparenti imprecazioni.
È stato da alcuni osservato come nell’intimità del rapporto madre-bambino, lontano da orecchie indiscrete, la donna abbia avuto modo di dare sfogo ai suoi dolori e alle sue frustrazioni, cosa che in altre occasioni di canto, maggiormente socializzate, non le era possibile fare. La complessità dei contenuti e delle valenze psicologiche delle ninne nanne è tale anche perché si tratta del canto che più si avvicina al monologo interiore. In esse possono essere esplicitati sentimenti molto contrastanti come amore e dispetto, rabbia e frustrazione, protesta e sottomissione, espressi spesso con franchezza assolutamente inusuale.
Indubbiamente certe libertà di espressione erano consentite dal fatto che il bambino non comprendeva ancora il senso delle parole che gli venivano cantate. È possibile anche supporre che in molti casi la donna abbia operato una sorta di transfert, per cui l’interlocutore bambino lasciava il posto ad un altro che poteva essere il marito, il padrone o la malasorte.
Questa complessità emotiva e psicologica può spiegare, almeno in parte, le resistenze e l’imbarazzo che insorgono in molte donne, anche in quelle perfettamente disponibili a cantare, quando viene loro richiesto di eseguire delle ninne nanne. Ha scritto in proposito Roberto Leydi:
La esecuzione “a freddo” [di ninne nanne] e su invito del ricercatore si risolve (quando ottenuta) con risate nervose, interruzioni, commenti fortemente limitativi del valore del documento.
Un processo cioè, di difesa per proteggere qualcosa di molto intimo, molto personale, fortemente connesso con un particolare e “segreto” patrimonio interiore che non andrebbe divulgato.
Bisogna inoltre avvertire che non sempre le ninne nanne venivano cantate dalla madre, la quale nella società contadina doveva portare sulle spalle un enorme carico di lavoro, dunque il compito di badare ai bambini era spesso lasciato alle donne anziane o alle fanciulle.
La ninna nanna veniva pertanto cantata dalla nonna del neonato, o da una sorella maggiore, piuttosto che da una parente, una vicina di casa o una nutrice. Ciò può spiegare in alcuni casi certe espressioni così dure nei confronti della madre del piccolo, che soltanto in particolari circostanze potevano essere poi riprese dalla stessa.
Naturalmente la funzione di sfogo su cui ci siamo lungamente soffermati è solamente uno degli assi portanti dello spettro semantico entro cui si muovono le ninne nanne. In realtà leggere i canti di culla esclusivamente in questa prospettiva potrebbe essere fuorviante, molto spesso infatti la donna si lascia andare alla descrizione di momenti di serenità e dimostra il suo attaccamento al bambino con un linguaggio di notevole intensità poetica.
Ugualmente importante è pertanto la presenza di un radicato sentimento religioso che spazia a largo raggio nell’intero panorama culturale cristiano, pescando a piene mani nella tradizione orale dei Vangeli apocrifi o rifacendosi a quella letteraria relativa alla Passione di Cristo vista attraverso la trasfigurazione poetica datane, ad esempio, da Jacopone Da Todi.
Capita anche di imbattersi in ninne nanne che sono semplici e affettuose preghiere, o graziosi teatrini in cui agiscono i personaggi della Sacra famiglia descritti con grande tenerezza.
Anche se in questo caso è talvolta evidente un intervento “esterno”, in quanto si tratta presumibilmente di componimenti scritti da autori più o meno “colti”, il fatto che esse venissero comunque fatte proprie dai portatori di cultura popolare ne fa un materiale folklorico tout court.
Queste composizioni dimostrano peraltro una loro autonomia rispetto alla altre per il fatto che potevano essere anche cantate coralmente in circostanze festive, ad esempio durante la messa della notte di Natale.
Specchio della profonda religiosità di cui si nutre la cultura popolare è ad esempio l’augurio ripetutamente rivolto al bambino di divenire prete, o monaca se femmina, o anche, naturalmente, vescovo, cardinale, papa.
Talvolta è evidente l’autoidentificazione della madre cantatrice con la figura della vergine Maria che culla il bambino Gesù o con sant’Anna alle prese con la stessa Madonna bambina.
Il tutto poi poteva essere contraddittoriamente affiancato da abbondanti dimostrazioni di insofferenza nei confronti di una gerarchia religiosa troppo spesso vittima delle tentazioni della carne.
Ecco allora una quantità di ninne in cui si attribuiscono al bimbo paternità sospette, spesso indicate nelle figure di monaci e preti libertini, secondo la migliore tradizione della novellistica medievale.