


ISBN 978-88-6218-131-0.
Prefazione del prof. Cesare Segre. Il libro può essere richiesto all’editore: www.booktime.it, è disponibile presso numerosi siti di vendita per corrispondenza o si può richiederlo al proprio libraio che lo procurerà in pochi giorni.
I signori per svagarsi hanno sempre amato circondarsi di persone ritenute spiritose con le quali o (più spesso) sulle quali ridere.
Infatti, per tale ruolo si sceglievano di preferenza persone fisicamente o mentalmente infelici (nani, gobbi, storpi, dementi) ed erano proprio queste caratteristiche fisiche a scatenare il riso in epoche forse più crudeli della nostra.
Benché ferocemente contrastati dalle istituzioni civili ed ecclesiastiche (da cui erano definiti ministri di Satana), essi soddisfacevano un bisogno essenziale della natura umana, quello del gioco e dell’evasione.
Questo faceva sì che fossero pressoché immancabili nelle mense di principi, duchi, abati e perfino papi.
Grazie ad un’irrefrenabile vitalità, essi hanno percorso in lungo e in largo la storia e la geografia del mondo, scorrazzando allegramente attraverso i millenni e approdando nei lidi più lontani.
Li troviamo nell’Egitto dei faraoni e nell’America precolombiana, nella Russia zarista e nella Nuova Zelanda dell’Ottocento anche se, a causa del nostro sguardo inguaribilmente eurocentrico, noi tendiamo a rinchiuderli nell’angusto spazio dell’Europa medievale e rinascimentale.
Il loro multiforme trasformismo ne ha consentito la sopravvivenza fino ai giorni nostri, dove hanno indossato i panni del clown da circo e di certi artisti di strada, o assunto i panni di certi imbonitori televisivi.
Questo libro ripercorre la loro storia attraverso i documenti storici e d’archivio che li riguardano, ma grazie anche ad aneddoti che ce li mostrano in azione con tutta l’improntitudine che il loro ruolo richiedeva: li vediamo soggetti attivi e passivi di scherzi e beffe di ogni tipo, ma anche costretti a subire dure punizioni per la loro insolenza, perché non sempre bastava a difenderli lo schermo della pazzia (vera o simulata che fosse).
Non mancano i celebri buffoni dei re di Francia, fra cui il più noto, Triboulet, ha fornito lo spunto per la figura di Rigoletto nell’opera verdiana omonima.
Così come i celebri nani della corte degli Asburgo in Spagna resi con straordinaria vivacità dal divino pennello di Velázquez, e poi ancora quelli inglesi, tedeschi, arabi, quelli dell’antichità classica greca e romana...
Il libro poggia sull’opera di centinaia di pittori, incisori, miniatori che li hanno visti in azione dal vivo e hanno potuto immortalare le loro gesta gaglioffe talvolta nel momento stesso in cui si attuavano.
Un’attenzione particolare abbiamo usato per andare oltre l’immagine stereotipata del buffone caratterizzato dal suo abito coi campanelli e dal copricapo con le orecchie d’asino.
In ciò siamo stati aiutati dal pennello attento dei migliori artisti (da Jean Fouquet al Bronzino, dal Veronese a Bruegel dal Giambologna a Rubens) che ci ha consentito di leggere negli occhi di queste persone molto più di quello che volevano vedervi i contemporanei, cioè follia, stupidità e demenza:
in essi abbiamo trovato di volta in volta ironia, orgoglio, disperazione e perfino una capacità critica che consentiva loro di essere una coscienza oppositiva al potere.
Prefazione del prof. Cesare Segre
Giullari, buffoni e simili hanno svolto un ruolo importante nella trasmissione, dal mondo classico (forsanche preclassico) ad oggi, di tradizioni sceniche, di tecniche del corpo, di forme di comicità, di tematiche, di ritmi.Ai giullari Tito Saffioti aveva già dedicato un grosso, importante e informato volume (I giullari in Italia. La storia, lo spettacolo, il pubblico, i testi, Milano, Xenia, 1990).
Molti di questi sono diventati famosi (come Dolcibene o il Gonnella o Mattello o Moschino, l’Alemanno o Bazán o il Trafedi), anche se delle loro esibizioni vocali, musicali e gestuali non è rimasto quasi nulla.
I buffoni utilizzavano non solo attitudini personali, soprattutto la prontezza di parola e l’arguzia, ma persino menomazioni ritenute comiche o divertenti; erano per esempio destinati a quel mestiere i nani e i gobbi, o persone in qualche modo deformi, come gli obesi.
Dovevano attirare l’attenzione del possibile pubblico: donde i vestiti sgargianti e multicolori, spesso secondo preferenze che già promettevano disordine o peccato, come il colore giallo.
A parte lo sghignazzo, che di solito è contagioso, i buffoni esibivano un linguaggio trasgressivo, preferendo un lessico licenzioso fitto di allusioni sessuali.
Capaci di svagare con i loro racconti, i buffoni erano anche pronti a battute brucianti, a commenti estemporanei, spesso sboccati.
Va poi ricordato che la buffoneria era altrettanto spesso passiva che attiva. Se i buffoni erano autorizzati a beffarsi degli altri, anche dei loro padroni, altrettanto spesso erano il bersaglio delle beffe dei loro “clienti”, beffe che potevano anche essere crudeli e umilianti, e per le quali non c’era riparo possibile.
Ma erano anche, i buffoni, degli artisti. Sapevano cantare e ballare, suonare qualche strumento, improvvisare scene embrionalmente teatrali.
E nelle feste erano animatori esperti, capaci di comunicare allegria, suggerire burle, trascinare il pubblico in giochi e danze.
Certo i loro gesti e le loro parole avevano l’oscenità come principale punto di riferimento, ma la trasgressione prendeva anche a oggetto le autorità e le leggi civili e religiose (e per questo furono sempre combattuti dalla Chiesa); però tutto questo avveniva in base alla tacita autorizzazione di chi riusciva a far trasformare eventuali dissensi in buffonerie degne solo di un sorriso. Si aggiungano poi esibizioni corporali, come le danze, esercizi ginnici, prestidigitazione.
Questi grandi organizzatori del divertimento – di divertimenti, in passato, non ce n’erano molti, sicché la funzione dei buffoni era ricercata e apprezzata - hanno lasciato innumerevoli tracce visive, che si colgono in miniature e affreschi, in pitture e sculture, nelle illustrazioni di libri e nelle stampe popolari.
E Saffioti ha svolto le sue ricerche sia nell’àmbito della bibliografia, sia in quello dell’iconografia. La galleria d’illustrazioni che ha messo insieme è straordinaria, e ci porta attraverso i secoli (dall’antichità classica ad oggi) e le culture (da quella egiziana all’indiana e alla cinese, senza dimenticare quella amerindia).
Come i pazzi, i buffoni portano spesso un bastone (la marotte) con infisse teste caricaturali, o meglio ancora teste di buffoni, che moltiplicano la presenza di chi impugnava questi bastoni, e facilitano dialoghi fittizi tra il buffone, magari ventriloquo, e il suo simulacro (cfr. la tav. V).
Opportunamente perciò Saffioti presenta anche figurazioni relative ai folli (tav. XXXIII, imm. 125 e sgg.), utili anche perché la società aveva da tempo attribuito ai pazzi abbigliamenti e comportamenti fortemente codificati.
I buffoni poi sono per lo più accompagnati da animali: cani, scimmie (per es. imm. 1, 94, 99, ecc.), pappagalli, al caso serpenti (fig. 14) o leoni (fig. 51), orsi (fig. 50) o leopardi (fig. 98). Questi animali, quando pure non siano considerati analoghi al diavolo, sono un richiamo alla ferinità e alle forze che ad essa si attribuivano, ma anche all’impossibilità di controllo di animali privi di ragione.
Nelle immagini sono ovviamente rappresentati, magari in opera, gli strumenti musicali dei buffoni: a corda (ribeche, mandole, viole, arpe, ecc.), a fiato (flauti e simili, trombe, corni), a percussione (tamburi, campanacci, cembali).
E i buffoni appaiono in atto di suonare, o di esercitare le loro abilità corporee con acrobazie (imm. 63), con giochi di prestigio (imm. 42), mettendo i trampoli (imm. 44), o, le donne, ballando sulle spade (imm. 59).
La figura del buffone era insomma fatta oggetto di valutazioni molto diverse e persino opposte.
Coccolati e locupletati di compensi anche consistenti dai loro padroni, essi erano pur sempre ai margini della società, come dei reietti riscattati, ma chissà per quanto tempo.
Significativi, nel loro presentarsi al pubblico, i tratti che richiamano altri reietti meno divertenti, come gli ebrei:
certe berrette di tipo frigio o a cono ricordano quelle imposte agli ebrei. E il colore giallo scelto spesso per i loro abiti era obbligatorio per gli ebrei, e spesso per le prostitute. Il riso sta molto vicino al pianto.
Un fatto che si nota in quasi tutte le illustrazioni, è che i buffoni cercavano di costruirsi un costume, quasi ufficializzando le loro funzioni: insomma una specie di divisa (indico tra le altre le tavole II, III, VI e le imm. 29, 38, 81, 89).
Certo, in queste illustrazioni le performances sono come decostruite: i gesti sono bloccati o sospesi, oppure slittano verso il simbolo; i colori talora mancano, e soprattutto vengono meno i suoni e i rumori, le voci e i gridi.
Tuttavia molto rimane di quella vitalità, di quell’allegria, e dobbiamo renderne merito a Saffioti. Se poi certe battute o certi aneddoti non ci fanno nemmeno sorridere, è un segno dei cambiamenti che ha registrato lo humour attraverso il tempo.
Questo libro dà anche materia per un eventuale disegno storico di questi mutamenti.
E poi, esiste un risarcimento: l’affabulazione.
Saffioti ne riporta molti, a volte tracciando vere biografie sommarie dei buffoni, consapevole che in questi aneddoti è ancora depositato qualche eco della loro immaginazione. È la parte più ampia e dilettevole del volume.
E in verità dalle pagine di questo libro balzano fuori ampie scene di vita cortigiana del passato, e i buffoni cessano di essere soltanto delle figure caratteristiche per diventare personaggi con i loro comportamenti netti e talora persino coraggiosi e generosi.
E c’è anche l’affabulazione originale, quella concepita dal buffone nel corso della sua opera di vero professionista: dalle sue parole (certo riportate, perché i buffoni non scrivevano quasi mai) si può risalire alla sua personalità e al suo tipo di humour.
Saffioti ci ha dato con questo libro un bellissimo spaccato di quel settore della vita quotidiana del passato che troppo spesso si trascura: il divertimento.
Cesare Segre